Avrei potuto perdermi

biancosemprebiancosoloinbiancobiancocomeunmantraripetobianco

Sopravvivere

Non ho bisogno della musica per scrivere,
nè del silenzio,
non ho bisogno di una sigaretta,
non mi serve nemmeno carta e penna,
o una tastiera.

Nella testa,
continuamente,
scrivo incubi che ho paura anche solo a sussurrare.

Le mie parole sono sangue nero di ferite che continuo a fingere rimarginate.

Forse questo è il mio unico buon motivo per smettere di farlo,
credermi guarita.

SELF PORTRAIT (under construction)

O anche: scomposizione in parole di un autoscatto mosso allo specchio

Essere ciccioni, quando si è piccoli, è la cosa peggiore del mondo. Cioè, no, ovviamente non lo è. Ma quando sei piccolo la pensi così, la cosa peggiore del mondo.
Non ero cicciona, io. Ma è come se lo fossi stata.
Quando ero piccola pregavo, non ricordo bene cosa, veramente, ma mi sedevo in mezzo al giardino e pregavo, probabilmente soprattutto per il mio cane, che stava benone e, forse proprio grazie alle mie preghiere, è vissuto a lungo. Poi ho smesso, ma non ricordo bene quando nè perché, forse era inverno ed era troppo freddo per andare in giardino. Di solito smetto sempre così, lascio che il freddo mi impigrisca e lascio le cose scivolare. E così ho smesso di pregare. E soprattutto ho smesso di credere. E chiedere. E sperare.
Ma veramente non è che proprio ho smesso, è che ho lasciato che le cose scivolassero, ecco.

Sono diventata una ragazzina con i capelli sempre legati e addosso i vestiti dismessi dai fratelli. Essere l’ultima di tre figli, che disgrazia. Una ragazzina brutta, per di più. La cosa peggiore del mondo, quando hai tredici anni. Cioè, no, ovviamente non lo è. Ma quando hai tredici anni, e sei brutta, e per di più ti crescono le tette e tu non le vuoi, la cosa peggiore del mondo. Per non parlare del fatto che ero anche un po’ cicciona. La cosa peggiore del mondo.
A tredici anni, mi sono lasciata obbligare a dare un primo bacio ad un ragazzo che più brutto non si poteva, solo perché mi vergognavo di non aver ancora dato un bacio. La cosa più brutta del mondo. Soprattutto perché poi non ho nemmeno potuto raccontarlo in giro, quel bacio. Quel ragazzo era davvero troppo brutto per indicarlo alle amiche. La cosa più brutta e imbarazzante del mondo.
Tredici anni. Le tette, imparare ad attaccare gli assorbenti alle mutande, i capelli sempre legati, il mio primo schifoso bacio, il suo profumo sui miei vestiti. [Se ancora oggi sento quel profumo mi viene il vomito. Lo riconosco. E mi viene il vomito.] Sull’autobus di ritorno mi veniva da piangere, ma c’era un tizio che mi ha attaccato bottone, diciamo così, e non è bastato per niente far finta di essere sordo-muta-cieca,  è sceso pure alla mia stessa fermata. Di lui ricordo solo che non era italiano e che aveva più denti d'oro che denti bianchi. Ma comunque non ne aveva molti. Scesa dall'autobus sono corsa via. E quello lo ricordo come il primo bruttissimo giorno in cui non mi sono sentita brutta.

Vedere la morte scendere dalle terrazze, quella non mi ci voleva proprio. Non quando hai tredici anni e ti crescono le tette e hai i capelli sempre legati e ancora non hai imparato ad attaccarti quelle cose sulle mutande e non sulle cosce. Ma da quel giorno non ho più visto tette, né capelli, né ciccia, né niente. C’era la morte, in casa, al piano di sopra. E quella sì. Ancora oggi. Sempre. È per me la cosa più brutta del mondo. Quella notte ho dormito nel letto tra mia mamma e mio papà, lo ricordo come fosse ieri. Mi sono svegliata di notte, nel mio letto da sola, ho guardato il soffitto per un po', e poi sono andata di là tra loro. Quella notte è stata l’ultima notte in cui sono stata tra mia mamma e mio papà. Anche perché, da quel giorno, forse proprio da quel giorno, mio papà non è più stato solo un papà.

Non voglio parlare, della morte. Effettivamente non voglio. Non è quello di cui volevo parlare e tutte le volte ci finisco dentro.

Son qui che scrivo e mi sento obliqua, come se la sedia si abbassasse da un lato e mi lasciasse scivolare. Scivolo via, mi lascio scivolare.

Tutto assume un altro valore, da quel momento, ma solo per te. Solo per me. Per gli altri sei ancora solo una ragazzina di tredici anni. Brutta per di più.

Oggi ho ventidue anni, ventitre quasi. Ho un centinaio di cicatrici su un braccio, altre sull’altro braccio, e sulle gambe, e sulle spalle, e sui fianchi e sulle tette che mi son cresciute quando avevo tredici anni, e. Le cose che son successe, dopo i tredici anni, me le son legate tutte addosso, come promemoria, ma la mia vita a volte, pare essere cominciata e finita lì.

Ho una cicatrice sul mento, anche, ma quella non l’ho fatta apposta, anche se, fatalità, avevo proprio tredici anni.

Lo faccio solo per poi dire non avrei dovuto.

Vorrei tagliarmi i capelli, abbastanza corti da non riconoscerli. Mettermi il rossetto, preparare una valigia, scarabocchiare su fogli importantissimi, comprare cento pesci rossi da mettere in vasca da bagno. Vorrei mettermi lo smalto rosso, anche sui piedi. Camminare a piedi nudi, fare l’autostop, parlare in una lingua che non esiste ancora, come quando avevo cinque anni.

Mi sto lasciando scrivere, lasciatemi parlare. Lasciate che io scriva.

Vorrei chiudervi gli occhi ad uno ad uno, continuare il mio penoso spettacolino silenzioso. Ballare impacciata senza farmi ridere, ma poi sorridermi addosso ugualmente.
Lasciate che io faccia, lasciate che io dica. Sono solo parole. [Sono tutto quello che ho perduto.]

 
Vorrei rimarginarmi i buchi, scrivere parole d’amore sopra ogni cicatrice. Coprire ogni bestemmia con un bacio, anche due.
Non risparmiare su niente, osare, esagerere.

Potessi farlo davvero probabilmente non lo farei. Mi conosco, non lo farei. E questo è il mio dolore più grande, benvenuto.

Vorrei tatuarmi un funambolo sul braccio, lasciarlo una vita lì, a tenersi in bilico sui margini della mia disperazione.
Vorrei non lasciarlo mai cadere.
Vorrei non averlo fatto.

Scriverei Caro Amore dieci volte e poi altre dieci. Non mancherei mai di chiamarti Amore. Non mancherei mai di chiamarmi Amore. Giuro che non mancherei mai di chiamarmi, soprattutto. Non avrei mancato mai di chiedermi, di domandarmi. Mai di pretendermi.

Sono stretta in un silenzio bianco che mi stringe più di ogni cosa al mondo. Lasciatemi far finta di scrivere. Lasciatemi fare ché presto è finita, sù. Continuate a bere i vostri caffè, andate ad accendere la tv, ad accendervi una sigaretta. Ricominciate a fumare. Iniziate. Iniziate a fumare per Dio! Andate a comprare un pacco di sigarette e poi a scartarlo e a iniziarlo.

Mi sento uno di quegli ubriachi che li vedi in giro da soli di notte. Di quelli che parlano e ti parlano e magari giocano a basket da soli senza palla. E poi esultano pure e si fanno il tifo o si insultano per un fallo clamoroso. Esistono i falli nel basket? I falli esistono senz'altro ovunque. Soprattutto al di fuori dallo sport. Dicevo. Di quelli che li guardi e non capisci se son tristi o felici o fanno finta. Loro. Ecco. Loro.

Vorrei mettermi uno smalto rosso, guarderei mani estranee scrivere qui al posto delle mie. Mi toglierei di dosso questa voglia di urlare.
Per ogni fine c'è un inizio. Ma a volte è talmente tanto diverso che non vale, ti dici che non vale, pensi che non vale così non vale cazzo no non gioco più. Basta. Ciao.

Vorrei avere una vasca da bagno sotto alla scrivania, agitare i piedi,
lasciar uscire tutti i pesci. 

Lascerei uscire tutti i pesci.

Time out.

Alda Merini.

"Che tu mi copra di insulti, di pedate, di baci, di abbandoni,
che tu mi lasci e poi torni senza un perché
senza un variare di senso nel largo delle mie ginocchia
a me non importa
perché tu mi fai vivere
perché mi ripari da quel gorgo di inaudita dolcezza
da quel miele tumefatto e impreciso
che è la morte di ogni poeta."

 

Non si muore tutte le mattine.

Mi chiedo come si faccia a vivere, ora.

Come cazzo fate a vivere voi? Come si fa? Come si può? Come?

Si muore. Ogni giorno, continuamente, improvvisamente.

Sotto una macchina, dentro una macchina, su una terrazza, al parco la domenica, a tavola con gli amici, a tavola da solo, in un letto d’ospedale, nel letto di camera tua, affianco al marito, uccisa dal marito. Da bambino, da vecchio, a vent’anni, a ventidue, a quarantasei, a novantaquattro

si muore. In estate, in inverno, il 21 marzo o il 2 novembre. Si muore anche la domenica, il lunedì mattina. Si muore in agosto.

Morirò, morirete.

Sembra “cattivo” dirlo no?

Toccatevi le palle ora sì, così state tranquilli.

Non ho palle da toccarmi io.

Morirò.

Non esiste pensiero che mi terrorizzi di più.

Resto immobile a pensarci. E ci penso di continuo. È un’ossessione. Un’ossessione Viva. Che non ha soluzioni né calmanti.

Morirò.

Morirà mia nonna, mia mamma e poi io. In ordine sparso anche.

Morirà la persona che amo, i miei fratelli, i miei tre amici che addomestico da una vita. Non servirà a niente averli innaffiati e protetti dal vento. Non servirà niente a niente.

E io non mi calmo. E non riesco a non pensarci continuamente, quando fumo o quando smetto. Quando tossisco, quando mi addormento, quando mi manca l’aria per l’emozione, quando mi accorgo di quanto bello o brutto sia, Vivere.

Ci penso quando sorrido, quando sto bene e quando poi sto male. Ci penso quando mi accorgo ché è un po’ che non ci penso.

O anche dal niente, così.

E per quanto possa avermi delusa, umiliata e stuprata questa vita,

preferirei continuare per sempre a soffrirla,

pur di non sapere quanti funerali mi aspetteranno.

Pur di non sapere che ci sarà anche il mio.

E adesso ditemi come fate.

 

Non era così che sarei voluta tornare ma.

Non so spiegare la fretta che rovescia libri e dischi, che apre pagine a caso sicura di trovare, la fretta che schiaccia i tasti forte, che apre i cassetti e se ne frega vedendoli cadere.

Veloce come mancasse il fiato, come se il passato potesse fare da respiro, ora.

Non so spiegare come sia ritrovarsi lì, lì in mezzo, lì sommersa,

non so spiegare come sia aprire gli occhi e vedere,

di colpo, vedere.

Non so giustificare quest’asma incontrollabile, questa fame di ricordi, così malata, così Forte.

Non so giustificare questi occhi che piangono, queste dita che ancora una volta scrivono, in questo modo, scrivono, veloci, indipendenti. Prepotenti.

Dopo anni non sono ancora in grado di giustificare il mio sguardo sulle mie braccia, in quel modo che non vorrei, che non dovrei. Non faccio niente, le mani sono immobili, non c’è pericolo, ma è sentire quello sguardo che mi terrorizza.

La testa casca sfinita, come fosse piena, esausta, continua ad oscillare, oscilla, non smette di oscillare, non sa fermarsi, non si ferma, oscilla.

E lascia cadere a terra, su quei fogli a pezzi,

sangue bianco che semina disgrazie.

 

Cosa c'è dietro le nuvole

Questo spazio bianco mi innervosisce,
torno qui spesso e sempre spero di vedere qualcosa di diverso. Una musica diversa, un colore diverso, una parola, qualcosa. Forse sto scrivendo queste righe proprio per questo. Forse cambierò canzone, forse riuscirò anche a sentirmi un po' più nuova, così.
Molto più probabilmente rimarrà tutto come prima, come un'ora fa.

Non ho più parole. Non ho parole. Non ho più neanche silenzi.

Mi fermo al bianco.

Bianco.

Se qualcuno cercasse

di capire il tuo sguardo

Poeta difenditi con ferocia:

il tuo sguardo son cento sguardi

che ahimè ti hanno guardato

tremando.


 



Alda Merini

L’attesa

Caro amore,
entra,
ti stavo aspettando.


Sono qui dove mi hai lasciata,
qui da così tanto tempo che ora mi chiedo se davvero stessi aspettando te,
o se solo avessi dimenticato il motivo per cui vivevo prima,
e mi sia seduta qui, il giorno in cui te lo sei portato via,
sperando di ricordarlo.

Ma dimmi, quanto tempo è passato amore, che giorno è, che anno è?
E non badare alla polvere ti prego, non badare a questo mio disordine,
fermati al bianco amore, fermati.
Non avevo un motivo per alzarmi sai, non avevo un motivo per lavarmi, uno per svegliarmi, uno per guardare l’orologio e capire se era mattina o sera, perché tanto non sarebbe cambiato niente, amore, non sarebbe capitato niente.
Ero qui e aspettavo. Non potevo fare altro non sapendo se saresti arrivato di giorno o di notte, se tra un giorno, un mese o mai.
Non sapevo nemmeno se saresti arrivato davvero, amore, lo capisci? era questo il mio dolore più grande, questa la mia camicia di forza, questa la mia paralisi.

E’ tutto come l’hai lasciato tu,
tutto come quella mattina in cui sei uscito dalla porta ed io ero seduta qui,
a lasciarti andare via.
Non ho voluto spostare niente, non ho voluto dimenticare il teatro della mia morte quel giorno.
Non ho saputo togliermi di dosso quella smorfia della bocca, mentre tentava di trattenere un “non lasciarmi ti prego”, un “non te ne andare”.
Mentre ero qui a trattenere il respiro e le lacrime aspettando che chiudessi la porta dietro di te.

Quando te ne sei andato,
in quel momento,
ho visto il soffitto cadere ed era neve e pioggia forte e grandine.
Volevo chiamarti indietro, dirti di non partire con quel temporale,
avevo paura che ti sarebbe successo qualcosa.
Ho avuto tempo per pensare, Caro Amore,
ma io non ho pensato.

E sono ancora qui, ora, e ho ancora addosso quella smorfia e quelle lacrime.

Niente è cambiato ancora, niente è passato, nemmeno un giorno.
Sei tornato per il temporale, lo so.
Ma ora vai, amore, è tardi.

"Morire è la cosa peggiore che mi sia mai capitata. "

Una notte d’estate,

stanca di vivere,

ho scritto il mio memento mori.

L’ho attaccato sulla fronte

con una puntina

così che ogni mattina,

guardandomi allo specchio,

io possa ricordarmi

che anche io devo morire.


E forse proprio oggi.


Volevo disegnare sul muro della mia stanza persone che muoiono urlando di voler vivere. É la paura più grande che ho, questa. Volevo disegnarla sulle pareti della stanza, quella morte, volevo toglierlo dalle pareti del mio corpo, quell’orrore. Non accetterò mai di dover sottostare a questa vita, a quella morte. La notte piango perchè io so che devo morire. La notte piango perchè ho una paura che mi mangia dai piedi sempre più in alto mi mangia la paura di morire mi mangia. Non c’è niente di peggio di non vivere per paura di morire. Non c’è niente di peggio di non vivere.

Non c’è morte peggiore di questa morte, continua, lenta, disperante.


La morte, ecco com’era morire.