O anche: scomposizione in parole di un autoscatto mosso allo specchio
Essere ciccioni, quando si è piccoli, è la cosa peggiore del mondo. Cioè, no, ovviamente non lo è. Ma quando sei piccolo la pensi così, la cosa peggiore del mondo.
Non ero cicciona, io. Ma è come se lo fossi stata.
Quando ero piccola pregavo, non ricordo bene cosa, veramente, ma mi sedevo in mezzo al giardino e pregavo, probabilmente soprattutto per il mio cane, che stava benone e, forse proprio grazie alle mie preghiere, è vissuto a lungo. Poi ho smesso, ma non ricordo bene quando nè perché, forse era inverno ed era troppo freddo per andare in giardino. Di solito smetto sempre così, lascio che il freddo mi impigrisca e lascio le cose scivolare. E così ho smesso di pregare. E soprattutto ho smesso di credere. E chiedere. E sperare.
Ma veramente non è che proprio ho smesso, è che ho lasciato che le cose scivolassero, ecco.
Sono diventata una ragazzina con i capelli sempre legati e addosso i vestiti dismessi dai fratelli. Essere l’ultima di tre figli, che disgrazia. Una ragazzina brutta, per di più. La cosa peggiore del mondo, quando hai tredici anni. Cioè, no, ovviamente non lo è. Ma quando hai tredici anni, e sei brutta, e per di più ti crescono le tette e tu non le vuoi, la cosa peggiore del mondo. Per non parlare del fatto che ero anche un po’ cicciona. La cosa peggiore del mondo.
A tredici anni, mi sono lasciata obbligare a dare un primo bacio ad un ragazzo che più brutto non si poteva, solo perché mi vergognavo di non aver ancora dato un bacio. La cosa più brutta del mondo. Soprattutto perché poi non ho nemmeno potuto raccontarlo in giro, quel bacio. Quel ragazzo era davvero troppo brutto per indicarlo alle amiche. La cosa più brutta e imbarazzante del mondo.
Tredici anni. Le tette, imparare ad attaccare gli assorbenti alle mutande, i capelli sempre legati, il mio primo schifoso bacio, il suo profumo sui miei vestiti. [Se ancora oggi sento quel profumo mi viene il vomito. Lo riconosco. E mi viene il vomito.] Sull’autobus di ritorno mi veniva da piangere, ma c’era un tizio che mi ha attaccato bottone, diciamo così, e non è bastato per niente far finta di essere sordo-muta-cieca, è sceso pure alla mia stessa fermata. Di lui ricordo solo che non era italiano e che aveva più denti d'oro che denti bianchi. Ma comunque non ne aveva molti. Scesa dall'autobus sono corsa via. E quello lo ricordo come il primo bruttissimo giorno in cui non mi sono sentita brutta.
Vedere la morte scendere dalle terrazze, quella non mi ci voleva proprio. Non quando hai tredici anni e ti crescono le tette e hai i capelli sempre legati e ancora non hai imparato ad attaccarti quelle cose sulle mutande e non sulle cosce. Ma da quel giorno non ho più visto tette, né capelli, né ciccia, né niente. C’era la morte, in casa, al piano di sopra. E quella sì. Ancora oggi. Sempre. È per me la cosa più brutta del mondo. Quella notte ho dormito nel letto tra mia mamma e mio papà, lo ricordo come fosse ieri. Mi sono svegliata di notte, nel mio letto da sola, ho guardato il soffitto per un po', e poi sono andata di là tra loro. Quella notte è stata l’ultima notte in cui sono stata tra mia mamma e mio papà. Anche perché, da quel giorno, forse proprio da quel giorno, mio papà non è più stato solo un papà.
Non voglio parlare, della morte. Effettivamente non voglio. Non è quello di cui volevo parlare e tutte le volte ci finisco dentro.
Son qui che scrivo e mi sento obliqua, come se la sedia si abbassasse da un lato e mi lasciasse scivolare. Scivolo via, mi lascio scivolare.
Tutto assume un altro valore, da quel momento, ma solo per te. Solo per me. Per gli altri sei ancora solo una ragazzina di tredici anni. Brutta per di più.
Oggi ho ventidue anni, ventitre quasi. Ho un centinaio di cicatrici su un braccio, altre sull’altro braccio, e sulle gambe, e sulle spalle, e sui fianchi e sulle tette che mi son cresciute quando avevo tredici anni, e. Le cose che son successe, dopo i tredici anni, me le son legate tutte addosso, come promemoria, ma la mia vita a volte, pare essere cominciata e finita lì.
Ho una cicatrice sul mento, anche, ma quella non l’ho fatta apposta, anche se, fatalità, avevo proprio tredici anni.